Maternità e tutto ciò a cui sono costretta a rinunciare definitivamente.

Ho scritto questo articolo mentre facevo la terapia stamattina, poi si è cancellato e avrei lanciato pc e telefono fuori dalla finestra.

Vorrei sentirmi libera, senza pesi, senza i pensieri continui che mi accompagnano anche quando dormo, vorrei spegnere il cervello.

Ci sono dei momenti in cui l’unica cosa che puoi fare è accettare la sofferenza, accoglierla e affrontarla.

È la prima volta in cui il dolore mi butta a terra e mi lascia senza strumenti per rialzarmi, senza parole, senza alibi, senza soluzioni.

Riguarda me e basta, nessuno può aiutarmi. Dipende tutto solo da me e anche cercare di raccontarmi, di esprimere quello che sento mi sembra inutile.

Credo che tutti prima o poi ci rendiamo conto di quanto siamo profondamente soli nonostante la ragione ci renda consapevoli della fortuna enorme che abbiamo ad avere accanto una famiglia e persone che ci amano. Siamo in compagnia, ma soli perché non sappiamo come esprimere quel nodo alla gola, quel dolore nel petto, che ci tiene svegli la notte e ci tormenta con incubi e sogni oscuri.

A volte temo che questa cosa ostica da raccontare si chiami “depressione” e mi tremano le mani mentre scrivo questa parola.

Mi sono tenuta alla larga da “Lei” sin da quando il cancro si è trasferito a casa mia perché volevo solo vivere, prendermi più vita possibile, più aria possibile, più amore possibile da tutti, da tutto, da ogni persona incontrata nel cammino, da ogni singola esperienza della mia vita. Volevo Amore e lo avrei tirato fuori anche dai cuori più freddi e duri, tanto era la fame di Lui.

Ora invece sono bloccata ed è la prima volta che non si tratta solo di una giornata storta, del calo di endorfine causato dei farmaci, dall’imminente iniezione di Enantone per indurre la menopausa. È qualcosa di grosso, di profondo e spigoloso. È qualcosa con cui devo fare i conti una volta per tutte perché si può scappare per giorni, mesi, anni, ma c’è sempre un momento in cui schivare la realtà non è più un’opzione valutabile. Non c’è scelta, non c’è scampo.

Vi chiederete con cosa mai dovrò fare i conti ancora, ma credo che dentro voi stessi sappiate bene che anche per voi quel momento è arrivato o arriverà.

Ognuno di noi prima o poi deve rendere conto alla sua anima.

Io forse sento il peso dell’età matura e mi rendo conto che d’ora in poi mi mancherà sempre di più un’esperienza umana fondamentale: la maternità. Ne parlo spesso, scrivo spesso dell’impossibilità di avere figli a causa della malattia destinata solo a peggiorare (non sono pessimista, ma realista), a causa delle cure continue a cui sono sottoposta, ma ora sta accadendo qualcosa di diverso in me: sto prendendo atto della perdita e delle mancanze con le quali dovrò convivere.

Non mi sono mai sentita particolarmente attratta da bambini, pannolini e ciucci, da asili, scuole, lo sport al pomeriggio, gli amichetti a giocare a casa, torte di compleanno e candeline, ma non è questa la mancanza con cui dovrò fare pace.

È qualcosa di più potente: riguarda la realizzazione di sé come persona, riguarda la costruzione e definizione della propria identità. Non credo sia vero che si diventa chi si è dopo l’adolescenza e attraverso essa, la vita è un continuo divenire, cambiare, evolversi verso una forma sempre più compiuta di sé.

Io dovrò plasmare la mia persona senza quell’esperienza fondamentale che è l’essere genitore. Non avrò mai quel senso di responsabilità, di protezione, di maturità che è determinato dall’aver generato un figlio, una parte di sé che però è indipendente e autonoma, un essere vivente di cui si è responsabili, da guidare, soccorrere, amare, lasciare andare incontro al mondo quando è il suo momento di realizzazione personale.

Un figlio è un individuo legato a noi sempre e per sempre, è quella parte di noi che rimarrà anche quando non ci saremo più.

È la nostra memoria dal punto di vista soprattutto emotivo ed affettivo.

Un figlio è parte essenziale della famiglia anche se famiglia possono esserlo amici, amiche, compagni di vita, ma in modo diverso.

Non ha senso che io cerchi di spiegare cosa significhi essere genitore, essere madre e padre perché non lo so, non potrò mai saperlo davvero, ma solo provare ad immaginare, cercare di empatizzare con chi genitore lo è davvero.

So però cosa significhi non avere figli e non poterli mettere al mondo: è una specie di lutto perché legato ad una mancanza ed in un certo senso anche ad una perdita. Io ho perso qualcosa che prima di ammalarmi davo per scontata: la capacità di generare un essere vivente. È un lutto sui generis, non è come perdere qualcuno che si è amato, che ha generato un ricordo in noi, ma qualcuno che non c’è mai stato e mai ci sarà. Non oserei mai affermare che è come perdere una persona cara, ma credo sia giusto chiamare le cose col loro nome e non temere di dire che è un lutto.

Fidatevi: questo lutto non deve essere sottovalutato, ma analizzato e vissuto fino in fondo con enorme consapevolezza.

Non si scappa dai propri demoni e faccio riferimento diretto al greco δαιμών, ciò che è a metà strada tra divino ed umano. Non è nulla di negativo, tutt’altro: ha un significato profondo e radicato. Per alcuni antichi era l’essenza stessa dell’anima, una sorta di spirito-guida.

Un’altro aspetto fondamentale del non essere genitori riguarda la propria identità a livello sociale. È inutile negarlo: per la società chi non ha figli non ha lo stesso valore di chi li ha. Il mondo ed il suo futuro dipendono dalla capacità di generare figli che modificheranno la realtà in cui si vive e saranno responsabili delle scoperte di domani.

A livello più piccolo, meno “esistenziale” e più pratico non avere figli determina una sensibile diminuzione delle amicizie perché è ovvio è normale che le persone tendono a stare con la propria “tribù “ ed i simili si cercano con i simili. Chi ha figli è più propenso a cercare qualcuno con cui condividere le gioie ed i drammi che la genitorialità comporta, ma anche qualcuno che abbia figli con cui fare giocare i propri.

Un figlio è amore, incondizionato, puro e potente.

L’unico modo per superare questo dolore comporta alcuni passaggi secondo me:

1- Accettare questa mancanza.

2-Vivere il dolore fino in fondo senza paura di farlo emergere e senza temere le proprie reazioni.

3- Accettare la solitudine che comporta la possibilità che le persone vicine non comprendano la natura reale del proprio lutto, l’intensità del buco che ci scava il cuore.

4-Fare i conti con se stessi e cercare di capire cosa fare concretamente per avere un pezzetto di felicità. Questo puoi saperlo solo tu perché solo tu puoi sapere cosa ti rende felice.

5-Circondarsi di amici fidati con cui si sta bene e che non pretendono di dirci cosa è meglio per noi perché questo possiamo saperlo a malapena noi stessi.

6- Di fondamentale importanza: vivere la gioia e la commozione per gli amici che hanno figli. Essere felice per loro, commuoversi per i loro traguardi è una forma di amore pura e nobile, ma è tale solo se sgorga da un cuore sincero e da un animo puro e non malvagio. Io ad esempio non provo invidia per chi ha figli, anzi mi commuovo spesso per loro e sono felice, l’unica difficoltà nasce dal fatto che guardando loro mi rendo conto di ciò che manca a me e soprattutto mi sento tagliata fuori, come se la mia situazione scottasse e fosse meglio starmi distanti. Sento più la loro distanza da me che la mia da loro.

Avrei scritto mille altre parole in merito a questo argomento, ma questo articolo del blog è già troppo lungo quindi riserverò le altre parole per una seconda parte onde evitare di rendere la lettura troppo impegnativa.

Non ho soluzioni, anzi brancolo nel buio. L’unica cosa di cui sono certa è di essere totalmente sincera e aperta. Non scrivo per ammaliare, per sollevare gli animi, per fare da guida. Vale l’opposto: scrivo per cercare una guida, per rendere nitidi i pensieri e per documentare una situazione reale, vera, senza alcun altro fine che narrare come mi sento davvero, nel profondo, e cosa comporti ammalarsi in giovane (non troppo) età e diventare adulta convivendo col cancro, ma soprattutto vivere ogni giorno scandendo le proprie attività in base ai farmaci da assumere, fare i conti coi dolori e con gli antinfiammatori e gli antidolorifici che fanno sempre meno effetto, andare in bagno sei volte a notte per fare la pipì come se avessi trent’anni in più, non vivere la spensieratezza dei mie 20,30,40 anni, convivere con la mancanza di persone che non ci sono più.

A volte mi chiedo se valga la pena essere ancora in vita ad un prezzo che vi assicuro essere alto perché non scrivo mai TUTTA la verità, spesso ometto ciò che è troppo forte da esprimere, ma tutto ciò che scrivo è vero e viene dal cuore e dalla ragione che fortunatamente alberga ancora in me nonostante tutto.

Ancora resisto però perché ancora sento una spinta a farlo, altrimenti non cercherei con fatica di rialzarmi ogni volta che cado, quindi

VIVA LA VIDA! VIVA!

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Il mio δαίμων, daimon.
Salento estate 2022, foto di Serena Zaia

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