Voglia di libertà

3 settembre 2021

Mi trovo nel confine più estremo d’Europa, nella ormai nota, ma selvaggia isola di Lampedusa. È settembre, ma il sole brucia la pelle come nelle giornate di piena estate. Eh niente, lo scrivo ancora: mi sento terribilmente fortunata!

Il 27 agosto ho “festeggiato” 10 anni dall’inizio della malattia, momento che ha inevitabilmente modificato la mia percezione del mondo e della mia vita.

Tutto sommato il bilancio è positivo e l’esito è netto ed implacabile: sono viva!

Questo conta sopra ogni cosa, ma sarebbe stupido ignorare le difficoltà che ho affrontato e che ancora devo gestire nella mia quotidianità.

Dopo sei giorni di permanenza in quest’isola calda, selvaggia, ma accogliente mi sono resa conto dei limiti del mio corpo, del calo delle energie e dello sforzo mentale che faccio per celare questi impedimenti. Mi autoconvinco di essere la causa della mia indolenza, quasi come se fosse preferibile attribuire la colpa a me stessa piuttosto che alle terapie ed alla malattia.

Dovrò accettare i miei limiti e tollerare la stanchezza, le membra stanche quando gli altri corrono, saltano, nuotano, si tuffano il mare, ma nonostante ciò mi rendo anche conto che tutto sia possibile, basta volerlo ed accettare di avere tempi diversi.

Secondo voi io accetto passivamente tutto ciò? No! Sarei bugiarda anche se scriverlo sarebbe così semplice. Quando scrivi puoi usare liberamente le parole, creando mondi immaginari, modificando la realtà e plasmandola a tuo piacimento. Potrei scrivere che è tutto una figata e che io sono una tosta, una che non ha paura di niente, una che accetta la realtà nonostante tutto…

Potrei, ma non voglio. Se lo facessi la scrittura diventerebbe mia nemica, invece è l’unica cosa che ho, l’unica arma per affrontare la vita.

Oggi, mentre la pelle scotta, il mare si sfoga sferzante sugli scogli e la crema al cocco si fa spazio tra tutti gli altri profumi estivi, vi racconto una storia perché ascoltare e raccontare storie di altre persone e di altri mondi ridimensiona il nostro vivere.

La letteratura è come uno specchio, ma è anche qualcosa di diverso, è il coraggio di rompere lo specchio per vedere cosa si cela oltre esso.

QUELLI CHE RESTANO

“Aveva tra le mani un libro con la copertina gialla, un titolo breve: Le cose.

Lo sguardo era rivolto oltre la vetrina del bar in cui era seduto per ammazzare il tempo.

Una tazza quasi piena di caffè ormai freddo ed un cornetto mangiato a metà.

Aveva 34 anni, qualche capello bianco spiccava tra la folta chioma scura, gli occhi verdi, un pezzo di hashish in tasca, una felpa nera con cappuccio e la stampa di un simbolo di cui non conosceva il significato. Gliel’aveva regalata la sua ragazza ventitreenne, era una felpa firmata, così gli aveva detto, mentre lo guardava con gli occhi colmi di aspettative mentre scartava il regalo. Non era nemmeno il suo compleanno. Si era sentito in colpa perché lui non faceva regali per le ricorrenze, figuriamoci nei giorni “ordinari”.

Oltre il vetro del bar la via era animata da biciclette che correvano a zig zag tra i pedoni, da gruppetti di studenti che avanzavano lentamente ed animatamente, da donne avvolte alla perfezione nei loro completi scuri, da signore di età avanzata coi capelli bianchi e la schiena piegata dalle borse della spesa; una era intenta a tenere a bada il guinzaglio del suo cagnolino che abbaiava emettendo una vocina stridula.

“Cosa ci faceva là?”, si chiedeva.

Si sentiva vecchio per la vita che conduceva, ma con le persone della sua età si annoiava a morte e stava male.

Quasi tutti i suoi ex compagni di classe e i suoi amici storici lavoravano da anni, avevano un mutuo per la casa, si erano sposati o si accingevano a farlo e, soprattutto, avevano dei figli.

Un suo caro amico, Alberto, lo aveva chiamato la sera prima singhiozzando. 

Gli mancava il respiro e non riusciva a parlare, ci aveva impiegato un bel po’ di tempo per convincerlo a raccontargli cosa lo facesse stare tanto male.

Dopo vari tentativi e lunghi sospiri Alberto gli aveva confessato di essere disperato perché sua moglie non riusciva a rimanere incinta del secondo figlio.

Patrick aveva dato un pugno al vuoto stringendo i denti per non emettere alcun suono, si era seduto e lo aveva ascoltato.

Alberto gli aveva raccontato che da tre anni tornava a casa ogni sera con la stessa illusione. Immaginava ogni giorno la scena nei minimi dettagli, era la sua panacea, il piccolo film mentale che dava un senso alle sue giornate e di conseguenza a tutta la sua vita.

Immaginava i suoi passi veloci e decisi lungo il vialetto della sua villetta a schiera con l’erba ben tagliata e curata, sentiva il rumore delle chiavi nella serratura e vedeva la porta di casa spalancarsi come le tende di un teatro, entrava subito in scena il sorriso del figlio Francesco di tre anni che correva per saltargli in braccio. Dietro il piccolo c’era sua moglie.  Si scostava i lunghi capelli con la mano sinistra e quel gesto lo faceva impazzire.  Aveva gli occhi scuri che brillavano per la gioia di vederlo rincasare prima del solito dal lavoro. La sua pelle profumava di cocco.

Si abbracciavano, lui affondava il naso sui suoi capelli e la respirava mentre il piccolo e vivace Francesco ballava attorno a loro.

Patrick lo aveva ascoltato come solo un buon amico sa fare e gli aveva detto:

“Aspetta un attimo Albi, vado a prendere una birra dal frigo. Dai, vai anche tu a prendertene una che ce la beviamo insieme. Non importa se siamo distanti, per fortuna esistono i telefoni e le birre!”

Albero aveva esitato, ma poi era andato in cucina a prendere una birra. Era calda perché il frigo era pieno di latte, di pappette per bambini e di quelle maledette iniezioni che sua moglie Erica stava facendo da due anni nella speranza di rimanere incinta.

Erica non voleva che bevesse alcool perché temeva che potesse compromettere la sua fertilità, per questo lui nascondeva le birre nel mobile meno usato della cucina, quello dove lei teneva le patate. Era un mobile basso e scomodo e dietro le patate poteva nascondere quello che voleva, tanto lei non si sarebbe accorta di nulla. Ne era certo.

Non aveva raccontato a Patrick questo particolare, ma il suo migliore amico capiva tutto senza che lui dicesse nulla.

Patrick conosceva bene il dolore, quello che ti entra dentro e non ti molla più, per questo capiva le persone, anche se faticava a volte a capire se stesso.

Erano rimasti al telefono per ore. Aveva parlato quasi sempre Alberto.

Patrick sapeva che aveva bisogno di sfogarsi e lo capiva, si immedesimava nel suo disagio anche se inizialmente aveva provato rabbia e si era chiesto: “perché sta raccontando proprio a me queste cose? Non sa che io pagherei per essere al suo posto ed avere i suoi problemi? Davvero è un problema non potere avere il secondo figlio? Cazzo aveva tutto: una moglie intelligente, bellissima, che lo amava alla follia, un figlio stupendo, una casa di proprietà ed un’attività bene avviata.

Per questo motivo Patrick aveva dato quel pugno al vuoto prima di sedersi ad ascoltarlo.

Dopo poco si era pentito di avere pensato quelle cose, si era sentito in colpa.

Ognuno ha il proprio dolore perché ognuno ha la propria gioia.

Anche lui aveva avuto la sua e questo aveva comportato la sua parte di dolore.

In fin dei conti non era colpa di Alberto se aveva sofferto così tanto e se aveva perso tutto quello che per lui era importante.

Dopo avere formulato questi pensieri aveva ascoltato Alberto con maggiore trasporto e aveva colto la sua disperazione.

Gli aveva infatti raccontato che quando il piccolo Francesco aveva compiuto un anno sua moglie Erica aveva espresso il desiderio di avere un altro figlio. Alberto era rimasto un po’ spiazzato perché gli sembrava troppo presto per un altro figlio e perché si stava godendo quel momento della sua vita così intensamente da non desiderare nient’altro.

Perché aggiungere un nuovo desiderio quando ancora non si era reso conto di avere realizzato il primo?

Erica aveva interpretato male il silenzio di Alberto. Del resto lui non si era spiegato, era solo rimasto là, con lo sguardo da pesce lesso, senza emettere alcuna parola.

 Il primo compleanno di Francesco ha segnato l’inizio della discesa. Così l’aveva chiamata Alberto parlando al telefono con l’amico.

Gli aveva detto che Erica era cambiata, che non faceva altro che parlare di spermatozoi, di ovuli, di fecondazione, di fertilità…persino Francesco era passato in secondo piano.

Alberto si era vergognato un po’ di raccontare all’amico che la moglie non dormiva più con lui e che si era ricavata una camera tutta per lei, per avere la sua tranquillità ed il suo spazio. In verità era lo spazio di Erica e del suo bambino perché Francesco dormiva sempre con lei. 

Aveva così privato, senza volerlo, del rapporto del bimbo col padre.

Alberto non metteva mai a letto il figlio, non gli raccontava le storie e non lo guardava mentre lentamente si addormentava e si abbandonava ai sogni nel mondo fatato dei bimbi.

 Quando rincasava dopo il lavoro nessuno lo accoglieva e la maggior parte delle volte non cenava nemmeno dato che Erica mangiava molto prima con Francesco. A volte si chiedeva perché lei avesse cambiato le sue abitudini così velocemente.

Cenava alle 18 ogni giorno, cosa che non aveva mai fatto nel loro passato dorato quando solitamente a quell’ora stavano uscendo per l’aperitivo.

Nonostante la distanza sempre più grande tra Erica ed Alberto lei continuava a fare sesso con lui, solo che ora mancava tutto il resto: le cene, le bottiglie di Franciacorta, le candele, i film di Truffaut, le discussioni sulla politica, il profumo della sua pelle ogni volta diverso. Erica infatti amava le fragranze e aveva tantissimi profumi ed oli essenziali, emanava sempre una fragranza diversa. Lei era profumo per lui.

Ora facevano sesso solo in determinati momenti, quando era fertile.

Ovviamente Alberto aveva detto a Patrick che quel cambiamento era stato repentino, ma l’amico sapeva che non era così. Conosceva bene sia Erica che Alberto e soprattutto sapeva che quando l’amore tra due persone è forte può degenerare nell’opposto: in qualcosa di molto simile all’odio. 

Questo poteva essere molto pericoloso.

Patrick aveva l’aria assorta e stava ripercorrendo mentalmente la serata precedente e la chiacchierata col suo amico.

Era preoccupato per lui, temeva che la situazione gli sfuggisse di mano. Era anche dispiaciuto per Erica ed il piccolo Francesco e si chiedeva che cosa avrebbe potuto fare per loro.

“Sono troppo incasinato”, pensava.

“Sono un caso umano, un finto analfabeta sentimentale, e tale voglio rimanere”.

Infatti da quel fatidico primo lunedì di gennaio aveva salutato il vecchio Patrick, quell’animale da compagnia, sempre solare e divertente, quell’uomo dal cuore grande e lo spirito profondo, ed aveva inaugurato una nuova era della sua vita ritornando improvvisamente adolescente.”

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